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Le donne

Ingenuae (libere)
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Alle donne libere e cittadine romane, l’ordinamento riconosceva capacità giuridica(1), ossia la capacità di essere titolari di un diritto soggettivo.
Ad esse non era invece riconosciuta la capacità di agire, ovvero la capacità di compiere degli atti ai quali l’ordinamento giuridico attribuiva l’efficacia di costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici.
Le donne, quindi, erano sempre assoggettate alla tutela di un uomo (anche se patrizie) e per l’efficacia dei negozi giuridici da queste compiuti era necessaria l’interposizione dell’auctoritas (autorizzazione, garanzia) del tutore.

In epoca classica l’istituto della tutela era in piena dissoluzione: dapprima alla donne venne consentito di agire in giudizio per chiedere al magistrato di costringere il tutore ad interporre l’auctoritas, in seguito venne loro data la facoltà di scegliersi il proprio tutore e per i negozi giuridici di recente introduzione fu sufficiente la sola volontà della donna.
Augusto, infine accordò lo ius trium liberorum (legge dei tre figli) alle ingenue con tre figli e alle liberte con quattro facendo cessare su di esse qualsiasi tutela.

Tutti coloro che non appartenevano alla classe patrizia erano costretti a lavorare, anche le donne.

Lavoravano in modo indipendente a domicilio, nel loro negozio, in piccole officine o in grandi imprese.

Il mestiere per eccellenza era quello della balia (nutrix).

nutrix
Nutrix


Tenuto in alta considerazione anche quello di levatrice (obstetrix), chiamata in famiglia per i parti normali e le prime cure del bambino, questo mestiere necessitava di un vero e proprio apprendistato.

obste
Obstetrix


Un altro mestiere che presupponeva discrezione assoluta e conoscenza approfondita, poiché basato su un apprendistato e un’istruzione libresca, era il mestiere della medica o iatromea, che si occupava delle malattie tipicamente femminili e dei parti difficili.

In età repubblicana, epoca in cui la donna riuscirà a guadagnare una maggiore indipendenza economica e giuridica, ci saranno delle vere e proprie donne d’affari soprattutto nel campo dell’edilizia, dell’industria tessile e del commercio.
Si dice addirittura che una donna fosse diventata proprietaria di una squadra di gladiatori.
Per quanto riguarda invece le professioni accademiche e artistiche le donne erano sottorappresentate: solo di rado si trovava una giurista (advocata), una pittrice (pictor, forma maschile) una poetessa (poeta, altra forma maschile) o una filosofa (philosopha).


(1)Tale capacità era riconosciuta a tutti coloro i quali avessero determinati requisiti:
  • Status libertatis, essere liberi
  • Status civitatis, essere cittadini romani
  • Status familae, non essere sottoposti alla patriapotestas di nessuno (padre, nonno…..) essere sui iuris.

La mancanza del terzo requisito (l’essere alieno iuris, quindi sottoposto alla potestas del paterfamilias), non annullava, ma limitava la capacità giuridica di un individuo).
Oltre le donne altre categorie di cittadini liberi si vedevano limitata o addirittura negata tale capacità: gli impuberi, i malati di mente, i prodighi e i minores (minori di 25 anni). Di conseguenza veniva attribuito ad un terzo il compito di sostituire con la propria attività quella insufficiente o mancante dell’incapace al fine di provvedere agli interessi dello stesso. (torna su)

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Libertae
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Lo schiavo poteva acquistare la libertà e diventare liberto attraverso la manomissione (manumissio) da parte del suo padrone, allo stesso tempo acquistava la cittadinanza (status civitatis) del manomissore.
Inoltre assumeva il praenomen(1) e il nomen(2) gentile del suo emancipatore, mentre come cognomen(3), atto a distinguerlo, manteneva il suo nome da schiavo.

In origine la manomissione avveniva in una di queste tre forme:

Verso la fine della Repubblica il fortissimo aumento della popolazione servile rese necessarie varie misure per limitare le manomissioni onde impedire l’ingresso nella cittadinanza romana a torme di schiavi.
La legislazione imperiale dopo il IV secolo, sotto l’influenza delle nuove concezioni cristiane, apportò notevoli mutamenti introducendo una nuova forma di manomissione, la manumissio in sacrosanctis ecclesiis, che consisteva in una dichiarazione solenne del padrone fatta davanti alle autorità ecclesiastiche di voler rendere libero lo schiavo.

Pur essendo liberi e cittadini romani, i liberti non avevano la stessa capacità giuridica degli ingenui, cioè dei nati liberi, ma godevano di una capacità giuridica limitata.
Sussistevano nei loro confronti varie limitazioni rispetto al diritto pubblico: erano esclusi dal senato, dall’ordine dei cavalieri, dal decurionato, da cariche ed onori nei municipi.
Il manomissore e i suoi discendenti esercitavano sul liberto lo ius patronatus.
Esso comprendeva anzitutto l’obsequium (obbedienza) del liberto verso il patrono e l’obbligo a determinate prestazioni a favore del patrono (bona, dona, munera e operae).
Sotto Giustiniano il liberto è assimilato all’ingenuus, per quanto riguarda i diritti pubblici e privati.

Per la donna una delle motivazioni più frequenti che portavano alla liberazione era il matrimonio: il concubinato di una schiava e del suo dominus finiva spesso nel matrimonio, per la validità del quale il padrone procedeva alla manomissione (manumissio matrimonii causa).
È da notare che l’inverso era vietato: una donna non poteva affrancare il suo schiavo per sposarlo.
Per quanto riguarda la possibilità di affrancarsi acquistando la propria libertà dietro pagamento di una somma di denaro, questa interessa generalmente gli uomini, ai quali veniva affidata la funzione di institor (uomo d’affari che sostituisce il padrone), anche se questa mansione poteva essere ricoperta perfino da una donna.



Contabile in macelleria

Le professioni esercitate dalle liberte erano spesso le stesse delle donne libere: vi era la fabaria (venditrice di fave), la furnaria (fornaia o panettiera), la gemmaria (gioielliera), l’unguentaria (la profumiera), la staminaria (filatrice) la tonstrix (barbiera), la vestrix (sarta), la notaria (stenografa), la caupona (ostessa), la coronaria (fioraia), la lintearia (tessitrice o commerciante di lino), la margaritaria (venditrice di perle), la frumentaria (venditrice di grano), l’ olearia (commerciante di olio), la praefica (donna pagata per piangere),la purpuraria (venditrice di porpora o di tessuti tinti con la porpora), la quasillaria (filatrice), la sagaria (commerciante di mantelli), la sutrina (ciabattina), la tabernaria (taverniera), la turaria (venditrice d’incenso), la tractatrix (massaggiatrice).


Venditrice di legumi

(1) Nella Convenzione dei nomi romani usata nella Roma antica, i nomi maschili tipici contenevano tre nomi propri che erano indicati come praenomen (che era il nome proprio come intendiamo oggi), il nomen (equivalente al nostro cognome ed individuava la Gens) ed il cognomen che indicava la famiglia in senso più allargato. Talvolta si aggiungeva un secondo cognomen chiamato agnomen. Un uomo che veniva adottato, mostrava nel nome anche quello di adozione Per i nomi femminili, c'erano poche differenze. Quando applicabile per cittadinanza, solo tre elementi erano obbligatori: praenomen, nomen, e cognomen, mentre elementi aggiuntivi come agnomen e adozione erano opzionali.
Praenomen
Questa forma di nome "proprio"era poco importante e raramente usata da sola. Sono relativamente pochi i praenomina usati nella Roma repubblicana e nella Roma imperiale. Solo un paio di questi, "Marco" e "Lucio" (con la versione femminile "Lucia") sono ancora in uso.
Molti dei "praenomina" maschili usati furono abbreviati ad uno o due caratteri nelle iscrizioni lapidarie; le abbreviazioni più comuni sono: Appius (Ap), Flavius (Fl), Gaius (C)….
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(2)Nomen
Il secondo nome o nomen è il nome della Gens (una sorta di famiglia allargata,clan), nella forma maschile per gli uomini.
Fra i nomina molto noti della Roma antica si trovano Claudius, Cornelius, Domitius, e Valerius. (torna su)

(3)Cognomen
Il terzo nome, o cognomen, comparve all'inizio come soprannome o nome personale che distingueva un individuo all'interno della Gens (il cognomen non compare in documenti ufficiali fino a circa il 100 a.C.). Durante la Repubblica e l'Impero, il cognomen si trasmetteva dal padre al figlio, distinguendo di fatto la famiglia nucleare all'interno della Gens. A causa della sua origine, spesso il cognomen rifletteva qualche tratto fisico o della personalità.

Agnomen
Quando nacque la necessità di distinguere dei nuclei più ristretti all'interno delle famiglie, venne aggiunto un secondo cognomen, chiamato agnomen. Alcuni di questi passarono di padre in figlio, come i cognomina, per distinguere una sottofamiglia (per esempio i discendenti di una persona specifica) all'interno della famiglia. Tuttavia il più delle volte venne usato come semplice soprannome. Talvolta fu usato come titolo onorifico per ricordare un'impresa importante.
Esempi di agnomina sono:
Africanus - Allobrogicus - Asiaticus - Atticus - Augustus (per gli Imperatori).
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Le donne
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Per quanto riguarda le donne dell’antica Roma è difficile redigerne una storia precisa e minuziosa: i dati che le riguardano sono parziali e frammentari poiché provenienti quasi esclusivamente da fonti maschili.
Inoltre dobbiamo spaziare in un periodo storico di circa dodici secoli e in un impero che aveva raggiunto dimensioni vastissime.
Nella letteratura propriamente storica si trovano poche informazioni e perlopiù riguardano le imperatrici o altre donne dell’elite per cui ci viene offerta solo una visione parziale del ruolo occupato dalla donna nella società romana.

Tuttavia attraverso le varie fonti scritte (soprattutto testi giuridici) e materiali (epigrafi) cerchiamo ugualmente di tracciare uno schema delle varie figure femminili dell’epoca.

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Servae (schiave)
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La schiavitù era considerata un istituto necessario per l’organizzazione di qualsiasi comunità politica: il lavoro servile costituiva il principale mezzo di produzione industriale e, in alcune regioni, anche di quella agricola.
Inoltre la società romana si basava proprio sul principio della disuguaglianza fra gli uomini e anche i più grandi filosofi dell’antichità dividevano gli individui in due categorie: i liberi e i destinati a servire.
In origine gli schiavi erano poco numerosi a Roma e quasi sempre appartenenti a popolazioni italiche contro le quali Roma aveva combattuto: erano di solito addetti a servizi domestici nella famiglia del padrone o adoperati per aiutare questo nei lavori agricoli.
Il loro alto prezzo induceva il proprietario ad un buon trattamento per non deteriorare un rilevante valore economico, perché rara forza lavorativa.
La loro condizione, da principio assai mite, peggiorò rapidamente in conseguenza dell’enorme accrescimento della popolazione servile a seguito del numero sterminato di schiavi prigionieri di guerra portati dai Romani dopo le grandi guerre di conquista.
La schiavitù venne incrementata inoltre dalla pirateria e dalla riduzione in servitù delle masse di abitanti delle province, i quali non avevano soddisfatto ai loro debiti di imposta verso gli appaltatori romani. Sotto l’impulso di questi fattori si sviluppò un vasto commercio internazionale di schiavi con veri e propri mercati.
Il fenomeno influì profondamente sulla vita sociale ed economica di Roma determinando l’esodo dei liberi agricoltori dalle campagne alle città, soprattutto a Roma, (poiché non potevano resistere alla concorrenza dei grandi proprietari terrieri che si servivano del lavoro degli schiavi).
Il loro diminuito valore individuale, il pericolo che rappresentava il loro alto numero, mutarono profondamente la condizione di fatto degli schiavi.

Lo schiavo era una cosa che si possedeva (res), che si poteva vendere, comprare, lasciare in testamento, ma che si aveva interesse a tenere sufficientemente bene perché durasse e rendesse.
Tutti coloro che avevano i mezzi, anche i liberti, possedevano degli schiavi e uno schiavo poteva anche avere un sostituto (vicarius) ovvero uno schiavo.

La sua unione coniugale non era considerata un matrimonio legittimo e non aveva effetti giuridici: era un unione di fatto chiamata contubernium che non creava una famiglia e rapporti di parentela.

Pur non avendo personalità giuridica, lo schiavo era considerato un essere umano dotato di intelligenza ed è in grado di esprimere una volontà. In quanto tale, poteva compiere determinati atti giuridici, i cui effetti andavano però esclusivamente a vantaggio del padrone

Il costume sociale ed anche la necessità di dare agli schiavi un incentivo al lavoro introdussero e svilupparono l’uso del peculium che assunse una sempre maggiore importanza economica.
Il peculium era un capitale che lo schiavo, consenziente il padrone, si formava con le proprie forze o con donativi e gli serviva di solito per riscattarsi cedendolo al padrone ed ottenendo in cambio di essere manomesso.

In quanto essere umano lo schiavo partecipava al culto e prendeva parte ad atti religiosi, poteva far parte di associazioni (collegia o sodalitates) a scopo funerario o di culto e il luogo dove veniva sepolto, secondo la religione pagana romana, era sacro agli dei (locus religiosus) allo stesso modo in cui lo era quello in cui veniva sepolto un uomo libero.

Lo schiavo era punito dagli organi pubblici per i suoi reati: le pene da infliggere erano lasciate alla discrezionalità del magistrato e venivano comminate in misura più grave di quelle previste per i liberi e tali da incutere orrore.

Meno noto è che molti schiavi, soprattutto in età imperiale, avevano posizioni di grande responsabilità, come “manager” di aziende o nell’amministrazione imperiale.
Era quindi nell’interesse del padrone consentire a tali schiavi, cui era affidata una posizione di prestigio, un aspetto esteriore decoroso e capace di suscitare fiducia.
In queste modo era impossibile, quantomeno nelle grandi città, distinguere al primo sguardo tra liberi e schiavi.
L’unico capo d’abbigliamento che questi ultimi non potevano mai indossare era la toga, l’esclusiva veste d’onore del cittadino romano.

Gli schiavi cittadini, a causa dello stretto rapporto con i padroni, diventavano loro confidenti, e forse il servus callidus, lo schiavo furbo e astuto, che nelle commedie di Plauto è intellettualmente superiore al suo padrone e ogni tanto lo rigira come vuole, esisteva anche nella realtà.
Un rapporto davvero affettuoso e personale si sviluppava sicuramente tra balie e pedagoghi non liberi e i bambini, futuri padroni, loro affidati.

Servi…aut nascuntur aut fiunt.
Servi o si nasce o si diventa.
I casi in cui un individuo libero diveniva schiavo erano i seguenti:

Per quanto riguarda le schiave, queste lavoravano in ambito domestico presso la loro domina con diverse mansioni.
L’ornatrix (la pettinatrice) si occupava dell’acconciatura della matrona, poi c’era la ministra (domestica), la pedisequa (accompagnatrice, ancella), la cubicularia (cameriera), l’ostiaria (portinaia), pastores…..
(1)


Ornatrix

Perchè lo schiavo acquistasse la posizione giuridica di uomo libero era necessario un apposito atto giuridico la manumissio.

(1) Un passo di Varrone che dialoga con un certo Cossinio, ci offre un quadro della vita degli schiavi pastori a metà del I sec. a.C:

Per il bestiame grosso (bisogna scegliere)dei pastori adulti; per il bestiame minuto, anche pastori giovani (...).Nei pascoli di montagna possiamo vedere dei giovani, in genere armati, mentre nelle proprietà portano il bestiame al pascolo non solo dei ragazzi, ma anche delle ragazze. Quelli che si occupano del pascolo, bisogna obbligarli ad essere tutto il giorno al pascolo e a far pascolare il bestiame assieme, ma a passare la notte ciascuno presso il suo armento. Tutti obbediranno al capo degli armenti (...) Bisogna scegliere gli uomini in modo che siano forti, veloci, agili che abbiano gambe e braccia in forma (...) I pasti devono essere consumati di giorno separatamente nell'ambito di ogni armento, mentre quelli serali in comune da parte di tutti coloro che obbediscono ad uno stesso capo di armenti (...). Per quanto riguarda la riproduzione dei pastori, per quelli che vivono sempre all’interno di una proprietà è cosa facile, dato che trovano una compagna schiava all’interno della fattoria e che Venere pastorale non chiede altro. Quanto a quelli che lavorano nei pascoli di montagna o in luoghi boscosi e che si riparano dalla pioggia non presso la fattoria ma in capanne improvvisate, certi agronomi hanno pensato che sia utile affiancar loro delle donne che possano seguire gli armenti, preparare da mangiare per i pastori e renderli in questo modo più stabilmente impegnati. Ma bisogna che queste donne siano robuste senza essere brutte: in molte regioni, esse non sono meno degli uomini che lavorano, poiché possono portare al pascolo gli armenti, portare della legna per il fuoco e cucinare il cibo o sorvegliare il materiale presso le capanne. Quanto all’alimentazione dei lattanti, sono in grado di dire che le medesime donne sono generalmente sia madri che balie. A questo punto Cassini mi guarda e dice: “Proprio come ti ho sentito dire quando eri andato in Liburnia, e avevi visto delle madri portare allo stesso tempo un carico di legna e uno o due lattanti: queste donne ci hanno mostrato con il loro esempio che le nostre partorienti, che rimangono a letto per molti giorni, sono magre come giunchi e spregevoli”. Per quanto riguarda la salute degli uomini e degli armenti e per tutto ciò che può essere curato senza bisogno di un medico, è opportuno che il capo degli armenti abbia con se dei manuali. Del resto, se non sa leggere, non va bene, perché non può tenere in modo corretto i conti relativi agli armenti del suo padrone. (torna su)

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LA COMPAGNA DEL LEGIONARIO
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In età Repubblicana il legionario era un cittadino che prestava servizio militare obbligatorio, se possedeva la fortuna minima richiesta, e sua moglie rimaneva a casa con i figli. Quando nel I secolo a. C. vennero arruolati anche i proletari furono stabilite delle regole tra cui il divieto del matrimonio dei soldati. A partire da quel momento le unioni dei soldati furono risolte nel concubinato (concubinatus) fino alla cessazione del servizio con tutto ciò che comportava per la stabilità delle unioni e la legittimità dei figli. Infatti tale convivenza non creava una famiglia legittima e legami di parentela: la concubina non partecipava alla dignità e al rango sociale del marito ed i suoi figli non erano considerati legittimi. Le donne abitavano in capanne o in case costruite all’interno di una sorta di agglomerato civile, le canabae, vicino agli accampamenti e alle caserme. Se erano cittadine romane trasmettevano la cittadinanza ai figli che ricevevano come luogo di nascita la dizione di castris (nati nell’accampamento). Una situazione simile era quella dei soldati non cittadini che servivano nelle truppe ausiliarie. Alla fine del loro servizio l’imperatore concedeva loro la cittadinanza (civitas romana) e il matrimonio legittimo (conubium) con la moglie che aveva al momento in cui veniva concessa loro la cittadinanza. Tale cittadinanza veniva estesa ai figli, in questo modo legittimati.

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LE DONNE DI SPETTACOLO

I mestieri legati al mondo dello spettacolo occupano un posto a sé. Le donne che ne facevano parte si esibivano sia in occasione di pranzi di gala che a teatro o nell’arena. Dalle fonti conosciamo la scaenica (attrice propriamente detta), l’embolaria (attrice d’intermezzo), la mima, la cantatrix o cantrix (cantante), la saltatrix (danzatrice) e la musica (musicista),che poteva essere: citharistria, cymbalistria, tibicina, sambucistria, e tympanaria ( ovvero suonatrice di cetra, cembali, flauto, sambuco- strumento triangolare simile alla cetra-, e tamburo).

GLADIATRICI

Per quanto riguarda i giochi, gli spettacoli, che i romani chiamavano ludi, testi letterari e giuridici e documenti epigrafici dimostrano l’esistenza di donne gladiatrici. Gli spettacoli con le gladiatrici furono particolarmente numerosi sotto il regno di Nerone e di Domiziano. Ostiliano, magistrato di Ostia, si vantava di essere stato il primo nella sua città a far combattere delle donne. Mentre scrittori come Giovenale, Tacito e Svetonio mostrano la loro indignazione per tale moda. L’esercizio della gladiatura era permesso solo alle donne di rango inferiore e in seguito fu vietato da Settimio Severo.

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LE LUPAE

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Le lupae appartenevano ad uno status sociale inferiore: non era loro consentito coprirsi il capo e portare la stola, tipico abito della donna romana.
Non avevano il diritto di contrarre un matrimonio legittimo né la facoltà di trasmettere ai figli pieni diritti civili.
Non c’era controllo sanitario, dato che il concetto di salute pubblica non esisteva nell’antichità.
La sifilide non era presente allo stato endemico, però vi erano altre malattie veneree contagiose, descritte dai medici dell’epoca.
Erano usate una cinquantina di parole per designare queste donne: meretrice (meretrix quaestuaria), donna pubblica, lupa, scortum……

La prostituzione cominciò a fiorire a Roma agli inizi del II secolo e in epoca tardo – repubblicana e imperiale era assai diffusa.
Roma aveva le sue vie calde, soprattutto nel quartiere della Suburra e sull’Aventino e le lupae si mettevano in mostra davanti o dentro i postriboli, sotto le volte del circo e dei teatri, lungo le mura della città, davanti ai templi e agli stabilimenti termali e persino nei cimiteri.
La zona degli omosessuali invece era il vicus Cuscus, nei pressi del Foro
Gli imperatori non mancarono di esercitare il loro controllo anche sulla prostituzione: sia per ragioni di moralità pubblica che per motivi monetari.
Augusto istituì un registro delle prostitute, Caligola le tassò.
Al più alto livello qualche grande signora della prostituzione aveva un’attività ben avviata sulla strada e viveva nel lusso, si trattava di donne raffinate che sapevano sfruttare il loro fascino.
Non prendevano direttamente contatto con i clienti, ma si servivano di una sorta di agente o di un impresario femminile, la lena.
Al livello più basso della categoria, donne libere decadute, schiave e trovatelle educate a questo mestiere si trovavano spesso alle dipendenze di un leno, il loro padrone.
Nelle taverne spesso vi erano serve disposte a salire in camera e la caupona, la padrona della locanda, arrotondava i suoi guadagni con queste dubbie attività.
Le tariffe erano assai basse, e comunque accessibili a tutti, per lo meno per quanto riguarda le prostitute di strada e dei postriboli.
La tariffa base a Pompei era di due assi, pari a due fette di pane o mezzo litro di vino di qualità scadente. A Roma si trovavano prostitute che prendevano anche meno.

Il 23 Aprile si teneva la loro festa, in onore di Venere, loro nume tutelare, durante la quale dovevano indossare la vestis meretricia. Ne avevano dispensa solo in occasione della festa dei Floralia.

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ABBIGLIAMENTO DA LAVORO E SERVILE

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Le vesti indossate dai lavoratori e dagli schiavi erano molto simili, tali da farli apparire come facenti parte dello stesso ceto, mentre in realtà la loro condizione sociale era profondamente diversa. Della classe lavoratrice facevano parte pescatori, agricoltori, pastori, artigiani, commercianti, piccoli proprietari di botteghe e negozi e tutto quel  popolo che lavorava in proprio senza essere soggetto a padrone. Gli schiavi, invece, vivevano in condizione di assoluta soggezione, lavorando per i padroni ai quali appartenevano e ai quali erano tenuti a rispondere di ogni loro azione. Anche se lo schiavo non aveva diritti, il padrone aveva degli obblighi morali dettati dalla consuetudine; come prima cosa il dovere di  al suo mantenimento e quindi anche al vestiario. Una rozza tunica ed un paio di zoccoli a volte erano più che sufficienti.
I lavoratori e gli schiavi  che adempivano a pesanti incombenze, dovevano avere agilità e scioltezza nei movimenti e quindi indossare vesti idonee, tali da lasciare la massima libertà: per i lavori più faticosi, nei campi o comunque all’aperto, portavano solamente il subligar , perizoma legato sui fianchi, negli altri casi erano soliti vestire tuniche da lavoro e calzare carpatinae, scarpe simili alle crepide, aperte e di cuoio grezzo. La tunica più comune era quella di tipo esomide generalmente lunga fino a metà coscia, fissata sulla spalla sinistra da una fibula, in modo da formare una piccola manica con la ricchezza delle pieghe; lasciava scoperti una parte del petto e tutto il braccio destro, in vita era rimborsata da una cintura semplicissima.
Le donne indossavano una tunica in cotone o lino leggeri, lunga al ginocchio, trattenuta su entrambe le spalle da fibule, i cui lembi cadendo morbidamente lungo i fianchi, formavano delle specie di maniche che lasciavano scoperte le braccia. Oltre a questa tunica ne vestivano una corta all’anca, con lo scollo a barchetta, trattenuta sulle spalle da fibule, i brevi lembi cadendo formavano delle manichette morbile, tali da lasciale libere le braccia.
Per proteggersi dai rigori invernali ci si copriva con il birro o l’alicula. Il birro consisteva in una mantella generalmente in pelo o stoffa di lana pelosa, che copriva tutta la persona ed era aperta sul davanti; poiché spesso veniva sollevata sulla testa in modo da formare una cuffia, doveva avere due chiusure una sotto il collo e una all’estremità superiore . In questo modo ripresentava come un soprabito chiuso, fornito di cappuccio e veniva assimilato alla penula.
L’alicula era  una mantellina corta fermata sul davanti con una fibula. Deve il suo nome al fato che i lembi sollevandosi per i movimenti della persona o agitati dal vento formano due piccole ali.
Altro tipo di mantello era la lacerna in stoffa grezza molto più economica di quella portata dalle altre classi sociali, come pure le penule  molto semplici, di tessuti modesti.
Come calzari a seconda delle stagioni, portavano sandali piatti, ad infradito; ve ne erano di tipo femminile con corregge di cuoio che si incrociavano al collo del piede e salivano lungo i polpacci e un tipo maschile meno elaborato, con suole tenute da striscie di cuoio che lasciavano libero il tallone. D’inverno calzavano i perones, rustici stivali che coprivano il polpaccio, chiusi sul davanti con sottili lacci di coio e con la suola spesso ferrata; usavano anche gli udones fatti di pelo di capra, del tutto simili alle ciocie, usate un tempo dai pastori abruzzesi e laziali, nonché gli impila confezionati in feltro e stoffa pesante.
Discorso diverso meritano invece i servi e le ancelle addetti alla cura della persona dei loro padroni. Essi infatti indossavano vesti che dovevano riflettere il lusso della casa dove abitano. Nelle pitture di Pompei sono rappresentate più volte ancelle nelle loro funzioni, vestite di ricche tuniche talari dalle tinte assai vive, di stoffe finissime e leggere come il cotone, il lino e forse anche la seta, trattenute in vita o sottoseno da cinture di colore contrastanti e sulle spalle fibule di ogni tipo; calzano sandali molto ornati e di varie forme, tra i capelli acconciati in bellissime pettinature portano nastri coloratissimi e a volte gioielli.

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